UN LIBRO AL GIORNO LEVA IL MEDICO DI TORNO

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    di Mauretta Capuano

    Silenzioso, timido, riservato, Fausto Coppi, il Campionissimo, ciclista antieroico e sfortunato, vincitore di cinque Giri D'Italia e di due Tour de France, viene ricordato a cinquant'anni dalla morte (2 gennaio 1960), anche in diversi libri. Fra questi la nuova edizione della biografia romanzata, con un inserto di foto in bianco e nero, 'Il grande Airone' di Giancarlo Governi, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo, fra i fondatori di Raidue.

    ''Al di la' delle rivelazioni romanzesche, la figura del Campionissimo - sottolinea Governi - rimane indelebile nella memoria collettiva del nostro Paese (e non solo) per quello che ha rappresentato, oltre che per le sue mirabolanti imprese sportive, anche per la sua vita travagliata, conclusa prematuramente da una morte insensata di cui gli italiani non vogliono ancora darsi pace''. E ricorda che nel 2002 qualcuno ha anche chiesto la riapertura delle indagini per ''il sospetto che Fausto sia stato assassinato, avvelenato per vendicare una colpa non sua''.

    L'airone delle imprese impossibili e' morto infatti a poco piu' di quarant'anni, il 2 gennaio del 1960, per una malaria contratta in Africa che i medici non riuscirono misteriosamente a diagnosticare in tempi utili. Di Angelo Fausto Coppi, nato il 15 settembre del 1919 a Castellania, un paesino di contadini in provincia di Alessandria, Governi ripercorre gli esordi, i primi successi, il record dell'ora, la tragica morte del fratello Serse, la scandalosa relazione extraconiugale con Giulia Occhini, diventata nota come la Dama Bianca. L'unione con lei, secondo Governi, ''sembrava quasi che lo avesse sradicato dal suo vecchio ambiente sociale e lo avesse proiettato in un mondo diverso, distante, a cui non era mai appartenuto''.

    Ma lo scrittore prende soprattutto in considerazione in una nuova luce il rapporto di rivalita' e amicizia con Gino Bartali che aveva conosciuto ufficialmente nel 1940, alla punzonatura del Giro d'Italia.'Il Grande Airone', come dice il sottotitolo del libro, e' il romanzo di Fausto Coppi (e di Gino Bartali). ''In tutti gli anni del dopoguerra - dice Governi - la rivalita' sportiva fra Gino e Fausto fu trasportata, loro malgrado, su un piano sociale e politico. Dietro Gino il pio, che si faceva fotografare in borghese con il distintivo dell'Azione Cattolica oppure mentre baciava la mano al Papa, stava tutto il mondo cattolico. Dietro Fausto c'era, invece, l'Italia laica e progressista, quella che non amava le ostentazioni di Bartali e semplicemente pensava che i sentimenti religiosi e politici non dovessero confondersi, non dovessero essere mischiati con lo sport''.

    Invece, Coppi aveva una profonda fede religiosa e tre mesi prima della morte, su presentazione di Bartali, incontro' in via riservata don Pietro Canelli, un parroco di Milano. Nel libro viene riportato anche un elenco dei sacrifici fatti a inizio carriera su suggerimento di Biagio Cavanna, il massaggiatore cieco che ''lo aveva scoperto e conosceva tutti i suoi muscoli a memoria''. Dalla sveglia alle 5, la prima colazione alle 6 e alle 22 al massimo a letto. In alcuni giorni allenamenti su distanze di 180-220 chilometri.

    Fra i tanti libri usciti o tornati in libreria per il cinquantenario della morte dell'Airone anche la riproposta di due classici, 'Coppi e Bartali' (Adelphi) di Curzio Malaparte e 'Coppi il diavolo' (Book Time) di Gianni Brera, oltre a 'Coppi segreto. Il racconto di Marina la figlia del Campionissimo' (Sei), Fausto Coppi. Solitudine di un campione' (Mursia) di Gabriele Moroni, 'Fausto Coppi, il romanzo di una vita' di Beppe Conti (Graphot) e naturalmente 'Coppi & Bartali' (San Paolo) di Paolo Ormezzano.
     
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    di Paolo Petroni

    Liberta', riforme, a cominciare da una Costituzione che prevedesse diritti politici e civili per tutta l'Italia, dal Piemonte dei Savoia sino al meridione sotto il giogo dei Borbone, sono le richieste che Camillo Benso conte di Cavour chiede nel 1847 dalle pagine del periodico da lui diretto e fondato con una profetica testata: 'Il Risorgimento'. E' bene ricordarsene, come ci invita a fare Lucio Villari, oggi, mentre si preparano le celebrazioni (apre una mostra a Roma il 18 gennaio) per i 200 anni dalla nascita di Cavour (10 agosto 2010), che precedono di un anno quelle per i 150 dalla proclamazione del'Unita' d'Italia e della spedizione dei Mille.

    Questo perche', davanti a certe prese di posizione, proposte e iniziative che finiscono in prima pagina, le celebri parole di 'Va, pensiero' del Nabucco, ''Oh mia patria si' bella e perduta'', con cui Villari intitola il suo libro, sembrano poter tornare d'attualita'. Del resto la storia del nostro Risorgimento si lega indissolubilmente con la grande stagione del melodramma e Verdi in particolare, come con la produzione letteraria: ''E' fuor di dubbio che i valori di liberta', di nazionalita', di identita' patriottica - scrive lo storico - che si trovano negli scritti politici e letterari degli anni '40 (dell'Ottocento) avessero le premesse in una rilettura militante della storia politica, anzi, la storia e la critica letteraria furono, come abbiamo detto prima, strutture portanti di una visione strettamente politica del Risorgimento''.

    In questo modo, inoltre, Villari attualizza il discorso e rende nuovamente vivi ideali e avvenimenti, con un intento chiaramente provocatorio rispetto a certe musealizzazioni o, peggio, denigrazioni degli ultimi tempi, oltre che a un ricambio generazionale che viene costantemente ostacolato. Mentre i carbonari che tentano e riusciranno a cambiare l'Italia sono poco piu' che ragazzi, Goffredo Mameli muore a 22 anni in difesa della Repubblica romana e giovani sono la maggioranza dei Mille, tutti personaggi capaci di cogliere il nuovo, di crederci e quindi di creare la situazione per il cambiamento.

    Una storia questa raccontata da Villari, che e' storia di uomini, di grandi intellettuali e umili popolani, di desideri che si incontrano su un minimo denominatore comune. Diventa quindi inevitabile collegare quegli anni a quelli in cui si verificarono fratellanza e volonta' simili, un secolo dopo, per liberare nuovamente l'Italia ''bella e perduta'' dal ventennio fascista e l'occupazione tedesca. E oggi, forse e' ancora bella e non ancora perduta, ma certo le speranze che escono da queste pagine, e che avvertiamo anche in coloro che fecero nascere la Repubblica, ci paiono poco e male frequentate: la liberta' costata tanto cara, costa cara ed e' impegnativo continuare a esercitarla e difenderla, per tutti.

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    di Paolo Petroni

    L'inizio dell'anno non per tutti vuol dire giorni di veglioni e cenoni e ottimistici sguardi sul proprio futuro. E' uscito da poco, per ricordarcelo, un bel libro di Barbara Schiavulli.

    Forse andrebbe letto nelle scuole, alla loro riapertura dopo la Befana, visto che spesso oggi siamo anestetizzati nei confronti della guerra, che ci entra in casa in diretta sullo schermo tv, come immagini di una fiction.

    Barbara Schiavulli e' una giornalista che, da Haiti al Medio Oriente, dall'Afghanistan all'Iraq, si reca nei luoghi in cui la gente muore e si ammazza sul serio, dal vivo verrebbe da dire, e ci informa su come stanno le cose, su quel che accade. Lavoro ingrato, pericoloso: ''eppure questa vita non si sceglie - scrive - e' una malattia rara che ti colpisce e ti trascina in posti dove nessuno vorrebbe andare, dove e' impossibile guardarsi dentro, perche' quello che ti circonda e' cosi' tremendo da non darti tregua'', specie se si pensa ''ai giornali che non pagano, a quelli che riducono l'orrore in trenta righe, a quelli che non credono, a quelli che falsificano, a quelli che influenzano e soprattutto a quelli che non fanno distinzioni''.

    Per questo forse 'Guerra e guerra' ci coinvolge, si fa leggere tutto d'un fiato, scritto con una partecipazione e una pulizia di linguaggio che riesce a farci percepire qualche seme di verita' in quel che racconta, perche' Schiavulli nel libro fa tutto passare attraverso un lavoro narrativo, in cui l'autrice stessa si mette in gioco (''Spesso ci si concentra sugli altri per sfuggire a se stessi'', e' capace di confessare) nel racconto di storie, personaggi, o meglio persone, usando persino l'espediente letterario di una vicenda cornice. E' al posto di controllo per chi si imbarca all'aeroporto di Tel Aviv, sottoposta a mille domande e ripetizioni, a riferire perche', chi a visto, cosa ha fatto durante il suo soggiorno. E cosi' tornano alla memoria le vicende di una vita da inviata, con la paura sempre in agguato, come quando a Baghdad cerca di mimetizzarsi da araba, e di farsi notare il meno possibile, non guardando in faccia nessuno, sino a quando incontra Obeid che piange per il dolore. ''Se, per il resto del mondo, Taer, Ali' e Muhammad erano solo numeri, tre iracheni morti tra i tanti, per il loro papa' erano tutto il suo tesoro'', massacrati dalle milizie sciite durante il funerale dei loro cugini, sunniti.

    Da qualsiasi parte stiano, in questi racconti i protagonisti sono semplicemente vittime della furia di altri uomini, davanti alla quale non cedono mai niente della propria dignita', e le loro storie sono esemplari per capire come la vita quotidiana e la convivenza, la fiducia negli altri e nella costruzione di una societa', vengano sgretolate in profondita', creando danni che non si risolvono solo con un ''cessate il fuoco''. Ecco Fatima, la palestinese cui e' stato ucciso un figlio undicenne, che partorisce il secondo in taxi, perche', diretta a un ospedale, al posto di blocco non la fanno passare. Oppure il dottore ebreo Applebaum, direttore di un pronto soccorso, rimasto ucciso in un attentato kamikaze con la figli alla vigilia delle nozze.

    Sono le due storie esemplarmente (e non per ragioni di par condicio) messe assieme in apertura del libro, a dimostrarne subito il senso profondo: un invincibile umanesimo, che solo puo' salvarci. Non a caso, con le donne, i bambini sono sempre presenti, come i figli di Aida, prostituta in Iraq, l'esistenza tragica di Nasreen nell'istiuto dei minori di Kabul o l'ahitiano Michel di 9 anni, incapace di immaginarsi un futuro che non comprendesse una morte prematura, comunque vista come salvezza dall'inferno in cui vive. E vai a incontrare tutto questo ''sino a quando non ti scopri esausta. Fino a quando non ti imbatti nello sguardo di qualcuno che ti chiede aiuto e allora di nuovo tutto cambia''.

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    "Delitti in codice"
    Autori vari

    di Paolo Petroni



    ROMA - I noir a forti tinte, come quelli della trilogia svedese di Steg Larrson che sono in cima alle classifiche di tutto il 2009, sono oggi molto amati dai lettori, che così hanno premiato un esordiente come Donato Carrisi e confermato l'amore per le storie di Massimo Carlotto. Proprio per questo riscoprire il fascino che conservano le pagine di gialli classici, quelli di Conan Doyle e Agatha Christie, di Ellery Queen e Edgar Wallace. Certo, i racconti a sfondo enigmistico riuniti in questa antologia, pubblicati da Polillo Editore nella collana Mystery Collector's Edition, piccola biblioteca del giallo da salvare, sono intriganti più sul piano intellettuale che per la suspance e i colpi di scena, ma proprio per questo coinvolgono e reggono il tempo.

    Sono gialli in cui l'incognita da svelare, il mistero, è a sua volta un enigma, perché hanno tutti al centro proprio un problema di decodificazione di scritture cifrate, di Pupazzi ballerini, come chiama il padre di Sherlock Holmes i pupazzetti stilizzati, "disegni fatti da un bambino", come li definisce l'inseparabile Watson, usati al posto delle lettre dell'alfabeto, tutti da capire e scoprire, per riuscire a capire cosa vuole dire quella fila di omini danzanti, che sono in realtà un metodo di scrittura.

    Dietro di essi un passato che torna e in modo molto minaccioso nei confronti di una signora, moglie di un possidente di campagna che affida l'incarico a Holmes, la quale, quando li vede, impallidisce perché, probabilmente, conosce la chiave di quel codice, che la riguarda da vicino. La Christie invece parla di lettere che parrebbero riguardare argomenti futili e vari, ma intuisce che in realtà il loro argomento è tutt'altro (un po' come i celebri messaggi di Radio Londra durante la guerra) e si arriverà a scoprire che dietro c'é addirittura la criminalità organizzata, come si direbbe oggi, visto che il racconto è degli anni Trenta.

    Celebre autore di short stories, amato da Pavese innanzitutto, ironico e esemplare, O' Henry qui non è alle prese con Le memorie di un cane giallo, come si intitola una delle sue raccolte più note, ma racconta del mondo dei giornali e in particolare dell'inviato di guerra in estremo oriente H.B. Calloway, che riuscì a eludere la censura militare giapponese inviando un cablo in codice, che per fortuna i suoi riuscirono a decifrare, grazie a un vecchio giornalista dàantico mestiere.

    Insomma una serie di racconti curiosi, basati appunto su un codice che il lettore, assieme ai protagonisti del racconto cerca inevitabilmente di sciogliere. Un volume con un suo sapore garbato, ma che nasconde un lavoro editoriale serio, soprattutto dei traduttori, trasporre codici e sistemi da una lingua all'altra non è assolutamente facile e spesso bisogna reiventarsi tutto, per uniformarlo all'universo di riferimenti del nuovo lettore.

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    "Giorgio Perlasca Un italiano scomodo"



    di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero





    Avrebbe compiuto 100 anni il 31 gennaio Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano che nel 1945 a Budapest fingendosi diplomatico spagnolo salvo' dai nazisti migliaia di ebrei, sapendo perfettamente di rischiare la pelle. ''Non si aspetti niente da nessuno. ne' il suo governo, ne' qualche altro riconosceranno i suoi meriti. Si accontenti della soddisfazione di avere fatto un'opera buona'' furono le parole, rivelatesi profetiche, che gli disse l'amico console Angel Sanz Briz, suo 'complice' a Budapest e poi ambasciatore spagnolo presso il Vaticano. Fino al 1990 infatti Perlasca fu per gli italiani un perfetto sconosciuto. Fin quando quella 'banalita' del bene', che aveva reso Perlasca un uomo giusto per Gerusalemme, fu fatta emergere da una storica puntata televisiva di Mixer di Giovanni Minoli e dopo dal libro di Enrico Deaglio. Fino alla popolarita' nel 2002, ma a quel punto Perlasca era gia' morto (15 agosto 1992), grazie ad una fiction televisiva interpretata da Luca Zingaretti e diretta da quell' Alberto Negrin (Perlasca, Un eroe italiano) in onda il 27 gennaio su Raiuno con Mi ricordo di Anna Frank.

    Perche' l'Italia lo ha dimenticato perlomeno per oltre 45 anni? Fu un italiano scomodo secondo Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero autori del libro che Chiarelettere pubblica domani, raccontando la vita di un fascista che da solo salvo' migliaia di ebrei.

    Il libro dei due giornalisti e' bello come un racconto d'avventura: la sua militanza nelle camicie nere, il trauma delle leggi razziali, il viaggio tra Zagabria e Belgrado come commerciante di bestiame in cui diventa suo malgrado testimone delle stragi naziste in Europa orientale, la difficile situazione di fascista ostile a Mussolini nell'Ungheria controllata dai tedeschi, la sua scelta di strappare gli ebrei alla macchina dello sterminio di Eichmann, fingendosi diplomatico spagnolo, le frequentazioni con i nazisti per proteggere il suo metodo, il bluff che riusci' a salvare la vita a 70 mila ebrei del ghetto di Budapest, l'arrivo dell'Armata Rossa fino all'epilogo triste con il ritorno in Italia, l'emarginazione, il silenzio delle istituzioni, dei politici (De Gasperi ad esempio non gli rispose mai), degli storici, persino le difficolta' economiche: un eroe solitario e dimenticato per decenni. ''Non ci sono parole per lodare la tenerezza con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati.

    Che Dio onnipotente possa ricompensarvi'' si legge in un biglietto che gli fu consegnato dagli inquilini di una casa protetta di Budapest nel '45. Fra le tante assurdita' il diploma di Grande ufficiale della Repubblica accompagnato dalla lettera in cui si faceva presente che se voleva anche la medaglia avrebbe dovuto acquistarla. Il libro e' basato su un'intervista che Perlasca rilascio' nella sua casa padovana a Hallenstein nel '92, un mese prima della morte. E spiega perche' fu scomodo: alla sinistra perche' non rinnego' mai di essere un uomo di destra nonostante il presunto paradosso ideologico di aver salvato da fascista migliaia di ebrei, alla destra che lo aveva considerato un traditore perche' dopo l'8 settembre si era schiarato dalla parte del re contro Mussolini e alla Chiesa cattolica che si dimentico' di lui.

    ''Quella di Perlasca - scrivono gli autori - e' in parte una storia di umanita' e di coraggio, in parte il ritratto di un conservatore che non ha mai negato il suo passato fascista e per questo ha pagato un prezzo altissimo. La sua vicenda e' quella di un uomo solo che aiuto' migliaia di ebrei a salvarsi e poi fu abbandonato da tutti. E' la storia amara di un italiano che ha dovuto ricominciare da capo in un'Italia mediocre e piccolo borghese che, impegnata in una faticosa ricostruzione, non ha avuto l'energia, il tempo e la voglia di pensare a ricomposizioni storiche troppo dolorose e impegnative. Perlasca e' stato un grande italiano - dicono Hallenstein e Zavattiero - la vittima sacrificale di una politica e di una storiografia che non lasciano spazio a chi non e' vicino al potere''.

    di Alessandra Magliaro
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    "Rue de la cloche"
    di Serge Quadruppani


    di Paolo Petroni

    E' una via oggi proprio scomparsa, e sino a pochi anni fa quasi fantasma, con un solo palazzo, alle pendici del cimitero del Pere Lachaise, il luogo da cui parte tutta la vicenda mozzafiato raccontata da Serge Quadruppani nel suo ultimo romanzo, che si intitola appunto Rue de la Cloche. L'autore era ieri in viaggio per partecipare al festival del libro di Haiti, ma il suo volo e' stato bloccato come tanti altri diretti all'isola vittima del terremoto.

    Luogo simbolico, proprio per la sua marginalita' e precarieta', 'Rue de la cloche' ha invece dimensioni internazionali, muove interessi su scala mondiale, tra Tokyo, Parigi e l'Europa, gli Emirati, nei giorni in cui gli Usa attaccano l'Iraq.

    Periodo di crisi, di passaggio e riassestamento dei poteri politici e soprattutto economici, tra alta finanza e malavita organizzata (i confini tra le due cose sono spesso labili) a venti anni dalla caduta del Muro e dell'impero sovietico.

    Tutto ruota attorno a un grande progetto immobiliare nel XX arrondissement di Parigi, quello della multietnica e artistica Belville, gia' luogo di avventure letterarie del capro espiatorio Malussene di Pennac, che diventa il microcosmo, il punto di partenza per scoprire come il discorso possa allargarsi e tale speculazione si leghi a nuovi disegni multinazionali per realizzare i quali ogni mezzo diventa lecito.

    E al centro, paradossalmente, questa volta c'e' un libro, il manoscritto di un romanzo intitolato 'Death Job', e Leon Jaquet, la persona che dovrebbe possederne l'unica copia disponibile e averlo letto, visto che dovrebbe tradurlo in francese. E' l'unico traduttore letterario cui e' stata affidato tale lavoro, che negli altri paesi hanno in mano spie, ex agenti dei servizi e simili. Si tratta di un romanzo inchiesta che rivela gli interessi e le manovre di grandi banche internazionali e di multinazionali dalla rispettabile facciata coinvolte nella mega speculazione. Solo che, diventato preda di una caccia all'uomo tra vari mandanti in gara tra loro senza esclusione di colpi, Leon il libro non l'ha letto e ne aveva appaltato la traduzione a un'amica amante, Juliette, con cui ha litigato, buttando quel manoscritto dalla finestra.

    Tra coloro che sono sulle sue tracce c'e' il protagonista di ''Y'', altro romanzo di Quadruppani, quell'Emile K.(Krachevski), ex agente che ha lasciato il servizio e, per salvarsi da chi preferirebbe farlo sparire con tutti i suoi segreti, non fa che collezionare dossier, continuamente, per averli aggiornati, perche' quelli vecchi col tempo smettono di far paura. Insomma, ci sono gli elementi di un avvincente romanzo d'azione noir, capace di parlarci dei nostri tempi in modo inquietante, secondo lo stile di questo autore che cerca sempre di introdursi di sguincio dietro la facciata del mondo ricco e perbene da cui tutti finiamo per dipendere, per sgretolarcela davanti come per caso, come accade col povero Leon, traduttore per vivere come il suo creatore, sino a farci trovare davanti solo a delle macerie, senza piu' speranza.

    A coinvolgerci anche la costruzione del racconto, il suo montaggio quasi cinematografico, visivo, dal ritmo sincopato, con storie che si intrecciano sino quasi a arrivare al limite della disgregazione, quando Quadruppani riprende all'improvviso il bandolo della matassa, facendoci vedere la trama della vicenda, con dietro l'eco dello schiocco delle boluadoras, due palle legate a una corda usate come lazos dai gauchos argentini.
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    Angeli, ebraismo, cristianesimo, islam
    Teologi e filosofi, poeti e pittori non hanno mai cessato di interrogarsi sulla natura degli angeli. La loro immagine insieme splendida ed estenuata, pensierosa e feroce è penetrata così profondamente, oltre che nelle preghiere e nelle liturgie quotidiane dell'occidente, nella filosofia, nella letteratura, nella pittura, nella scultura, ma anche nei sogni a occhi aperti, nelle sottoculture e nel Kitsch, che una comprensione anche semplicemente coerente dell'argomento sembra impossibile. In che modo comunicano fra loro e con gli uomini di cui si prendono cura? Hanno un vero corpo o una specie di manichino che ogni volta assumono e lasciano cadere? Qual è il loro sesso? Sono capaci di sentimenti, possono ridere o piangere? Ma, soprattutto, qual è la loro funzione nel governo divino del mondo? Divisa in tre sezioni corrispondenti alle tre grandi religioni del Libro - Ebraismo, Cristianesimo, Islam - questa antologia riunisce per la prima volta in una accurata presentazione critica i testi più significativi mai scritti sugli angeli, da Origene a Tommaso d'Aquino, dalla Bibbia a Maimonide, da Avicenna al sufismo. Ne esce un'immagine completamente nuova, in cui le delicate creature alate che ci sorridono dai quadri di Giovanni Bellini mostrano improvvisamente i tratti terribili della milizia divina e quelli loschi di una sterminata burocrazia celeste, che tiene nelle sue mani non solo le fila dei rapporti fra il divino e l'umano, ma anche la stessa posta in gioco della politica occidentale.


     
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    ''Blacks out - un giorno senza immigrati''
    Di Vladimiro Polchi
    (di Paolo Petroni)

    I giornali non arrivano alle edicole, molti bar sono chiusi, cosi' pompe di benzina, panettieri e pizze a taglio: inizia accorgendosi di questa realta' la giornata del cronista Valentino Delle Donne del 29 marzo, che si reca subito al giornale in cui lavora per capire cosa stia accadendo. Due notizie d'agenzia cominciano a far capire qualcosa: ''Confindustria Veneto: 60% delle fabbriche ferme'', batte l'Ansa alle 9.40 e l'Agi aggiunge ''Veneto, allarme degli industriali: ferme sei imprese su dieci''. Pare che tutti i lavoratori non italiani non si siano presentati al lavoro.

    Comincia cosi' la avvincente docu-fiction, come la chioma lui stesso, di Vladimiro Polchi su un ipotetico sciopero nazionale di tutti gli immigrati con lo slogan 'blacks out'. Finzione e' la giornata del protagonista e altri personaggi, suoi colleghi, familiari e conoscenti del quartiere, mentre tutti reali sono i dati sull'immigrazione, le storie di alcuni immigrati, loro interventi, lettere, interviste.

    Il primo settore ad arrestarsi sarebbe quello delle costruzioni, soprattutto nelle grandi citta', dove la manodopera straniera e' al 50%. Poi - racconta Polchi - toccherebbe all'industria manifatturiera, tessile, metalmeccanica, alimentare, dove hanno un ruolo chiave spesso difficilmente sostituibile (come gli addetti ai forni a ciclo continuo delle ceramiche). Quindi toccherebbe all'agricoltura, dalla raccolta della frutta ai pomodori, e alla macellazione degli animali, cosi' che comincerebbero a mancare gli approvvigionamenti nei mercati. Per non parlare di ristoranti, pizzerie, alberghi.

    Infine le famiglie che potrebbero restare senza badanti, babysitter e simili, e sarebbero in grave crisi cliniche (vi lavorano centomila infermieri stranieri) e gli ospedali. Ultima notizia, possono saltare anche le partite di campionato, visto che in serie A (nel 2009) i giocatori non italiani erano 203.

    Questo perche' i lavoratori stranieri si stanno sindacalizzando (nella Cgil i delegati di origine straniera sono duemila e trecentomila gli iscritti) per tutelarsi, visto che per l'Inail corrono il doppio dei rischi d'infortunio dei lavoratori italiani e, a parita' di mansioni, prendono sino al 40% in meno. Valentino Delle Donne, fatto il punto sui dati, cerca qualcosa su Google scopre la pagina 'Blacks Out Italia', tutta nera, con solo una data 20 marzo, ore 00.01, cliccando sulla quale compare la scritta: ''Per i diritti contro il razzismo, l'Italia senza immigrati''. Inevitabile quindi ricordare i tanti feriti o ammazzati da raid razzisti. Quindi il libro passa a raccontare storie di amici, come Nina, raggiunta da una telefonata allarmatissima della madre, perche' la storica badante della sorella handicappata non si e' presentata, poi quelle di alcuni badanti e braccianti, arrivati a suo tempo come clandestini e di cui ora alcuni gestiscono un'impresa, un negozio, un bar, magari con dipendenti italiani, oltre da essere, per esempio, i principali clienti di Poste Italiane, avere 400 conti correnti solo nelle filiali di Intesa Sanpaolo. Insomma, un paese, ma anche tutte le singole vite quotidiane dei suoi abitanti, profondamente scombussolate quando non messe in grave crisi. Un paese che farebbe bene a interrogarsi su se stesso, pare suggerire Polchi, che, a un certo punto, inserisce una pagine rivelatrice: ''Sono piccoli, di bassa statura, di pelle scura. Molti puzzano... si costruiscono baracche nelle periferie... Parlano lingue incomprensibili ... usano bambini per chiedere elemosine... le nostre donne li evitano perche' corre voce di stupri....'', che non viene dai razzisti di Rosarno, ma e' un documento ufficiale del Congresso Americano sugli immigrati italiani, datato ottobre 1912. (ANSA).
     
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    di Mauretta Capuano

    Dopo quasi sette anni di silenzio, Aldo Busi torna alla scrittura con tre racconti riuniti nel libro 'Aaa!' che esce in questi giorni per Bompiani. Sarcastico, provocatorio, Busi a 61 anni mantiene intatto il suo spirito irriverente e ci mostra nella sua durezza la realta' in cui viviamo ridicolizzandola ma anche la sua solitudine di uomo e scrittore.

    Cosi' non esita a proporsi in qualita' di cervello in fuga dal Paese scrivendo una domanda di assunzione alla Premiere Dame dell'Eliseo, che diventa anche un ritratto della sua vita di scrittore che ha deciso di ritirarsi dalle scene.

    ''Non ho - scrive Busi alla Prima Donna di Francia - amici, non ho amanti, non ho impellenze di alcun tipo, non ho comportamenti devianti, non bevo, non faccio alcun uso di droghe o barbiturici o di pastiglie dell'amore, non gioco d'azzardo, non vado a puttani ne' li convoco, non ho debiti (nemmeno morali), non ho fantasmi ne' ambizioni frustrate, sono completamente staccato dalla mia opera di Scrittore...''. A Carla Bruni si propone come ''filtro per le cento incombenze della Sua giornata'', pronto a rivedere i Suoi discorsi pubblici, a seguire Suo figlio negli studi, ad accompagnarla nei Suoi viaggi da sola, ad aiutarla nella scelta delle mises, a farLe da servo di scena nei concerti, a portare a spasso sua madre a ore fisse. Lo scrittore dichiara apertamente che la ''vorrebbe piu' audace'' e suggerisce alla Signora Sarkozy di ''risparmiare i Suoi sorrisi, che al terzo consecutivo gia' rivelano uno sforzo e da quello in poi risultano tirati..''.

    Parlando di se stesso dice: ''Le metto a disposizione l'intelligenza piu' brillante e piu' civile prodotta dal Suo stesso Paese nell'ultimo secolo'' e precisa : ''l'assunzione sarebbe possibile perche' non scrivo piu' libri dal 2002, e non intendo assolutamente riprendere, e perche' ho rotto anche il mio contrattino televisivo quasi decennale''. Ma dopo i saluti ''a Lei e ai Suoi cari'' riflette sulla sua scelta e tutto finisce in una bolla di sapone.

    Si apre su note un po' malinconiche il secondo racconto che poi cambia registro virando su sesso, scopate (''ho dei bei ricordi legati agli uomini che si prostituiscono'') e masturbazioni raccontate senza esitazione, con al centro la storia dello sprovveduto immigrato D. che fa sesso a pagamento.

    ''D., come la badante di mia madre, mandava quasi tutti i soldi a casa e ogni mattina si ritrovava in bolletta ma contento come il giorno prima...''. Il racconto si chiude proprio con un ricordo della madre alla quale lo scrittore era molto legato: ''mia madre aveva qualcosa in piu' di me: aveva me, e io no''. La storia che apre il libro, 'Il casto, sua moglie e l'Innominabile', come spiega l'autore di 'Seminario della gioventu', era gia' apparsa nella nuova edizione di 'Sentire le donne' (Bompiani, 2008) e viene qui riproposta con qualche piccola variazione. Il fotografo che fa scattare il ricordo della voce narrante nella precedente edizione si chiamava Trombetta qui e' Mario Giacomelli con i suoi famosi pretini.

    Quanto al testo e' stato rivisto ma ''i cambiamenti non sono rilevanti, a parte l'elucubrazione su Aldo Moro, prima messa, poi tolta e qui ripristinata''. ''Adesso sta' a vedere che al colmo della sfiga qualcuno comincia per miracolo a ragionare, fa un colpo di testa e liberano l'Aldo vivo senza alcuna condizione e costui , dopo quello che gli hanno fatto e non fatto i suoi esimi compagni di merenda, diventa il Cavallo di Troia del comunismo piu' sovietico e anticlericale che si sia mai visto dal Diciassette in poi in Occidente'' dice nel racconto in cui il Casto e' un prete che vive come un laico con una moglie di rappresentanza e l'Innominabile e' uno scrittore snidatore di inferni.

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    C. Varagnoli (cur.), Conservare il passato. Metodi ed esperienze di protezione e restauro nei siti archeologici. Atti del Convegno (Chieti-Pescara, 25-26 settembre 2003), Ed. Gangemi, collana Antico/Futuro.

    Sono raccolti in questo volume gli atti di due giorni di incontri organizzati nel settembre 2003 dalla Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo, dalla Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma e dal Dipartimento di scienze, Storia dell’Architettura, Restauro e Rappresentazione dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Il convegno venne tenuto all’interno di un importante hotel a Pescara.

    Architetti, archeologi, ingegneri e altri specialisti si sono confrontati su alcuni aspetti del restauro nelle aree archeologiche, con una particolare attenzione al tema della gestione e della protezione delle zone di scavo (dall’Introduzione).

    fonte libri e novita
     
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    "I conformisti"
    di Pierluigi Battista



    di Massimo Lomonaco

    Sono i conformisti gli assassini: loro hanno ucciso gli intellettuali italiani decretandone l'estinzione e, con loro, quella della cultura. Ne e' convinto il giornalista Pierluigi Battista, autore di un libro contro cio' che definisce ''quindici anni di vuoto assoluto e conformista'' nel quale ha prevalso la ''monotonia (e la monomania)''. ''Iniziare da capo - dice battista - sara' molto dura''. Il perche' e semplice:''il conformista di sinistra, prigioniero dei suoi spettri, non sa piu' distinguere tra voto popolare e plebiscito eterodiretto. Il conformista di destra vede nella pensione di reversibilita' per il convivente di fatto nientemeno che un attentato alla famiglia''. Una situazione che si regge su un'assoluta finzione, cioe' il ''simulacro di guerra civile inscenato ogni giorno da chi crede che il bipolarismo politico si traduca immediatamente in bipolarismo culturale e si sublimi addirittura in un bipolarismo antropologico''. E ancora: ''Come se davvero esistessero due blocchi culturali omogenei, uno di destra e uno di sinistra.

    Come se davvero esistessero due distinti tipi umani, il tipo di destra e il tipo di sinistra''.

    Sono 15 anni che in Italia - osserva dunque Battista - il dibattito culturale e' ''abbagliato da questa finzione classificatoria''. E peggio ancora dal fatto che, morte le ideologie assolute, si continua pero' a classificare tutto quanto in base al 'cui prodest', come se questa fosse l'unica cartina tornasole per un giudizio realmente libero e indipendente. ''Con l'invenzione del mito delle due Italie irriducibilmente contrapposte la sfumatura - scrive ancora Battista - diventa tiepidezza inammissibile, il chiaroscuro intelligenza con il nemico''. Insomma si e' smesso di ascoltare, riflettere, soppesare gli argomenti ''degli avversari''.

    Dove sono finiti - domanda Battista - i Bernanos, i Weil, i Camus, gli Orwell? Tutti intellettuali che, pur facendo parte di uno schieramento, seppero distaccarsene nel momento in cui si accorsero di non poterne fare a meno. ''Tradirono la loro appartenenza - scrive l'autore - per non tradire se stessi''.

    Certo i tempi sono molto diversi da allora e ''l'irregolarita' culturale non espone piu' a ostracismi e discriminazioni''.

    Fatto sta, pero', che il conformismo resta ''come un reticolato di tic mentali, di automatismi culturali, di riflessi condizionati che regalano al 'Luogo comune' il privilegio di un incontrastato strapotere''.

    ''Funziona l'ovvio pomposo - spiega ancora - l'effetto che fa, il pensiero stravolto nell'esasperazione parodistica dello scontro amico-nemico, Abbacinati dal caso italiano, gli intellettuali italiani non capiscono piu' quello che succede nel mondo''. E cosi' si indignano per ''un nonnulla dentro casa, e non sanno piu' vedere le forche che un ancora rigoglioso dispotismo dissemina nel mondo''. Chiudono il libro tre lettere aperte: la prima a Andrea Camilleri, autore di ''una battuta incresciosa e stupida su Mariastella Gelmini''; la seconda al professore Umberto Galimberti e le voci di ''indebita appropriazione intellettuale'', la terza a Piergiorgio Odifreddi e il caso Grinzane.

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    La vita di Carmela Iuculano in un libro
    La donna che si è ribellata alla mafia
    La storia della giovane mamma che ha avuto il coraggio di mettersi contro Cosa Nostra e sfidarla pubblicamente


    MILANO - «Cari figli miei, decidere di scrivervi è molto difficile per me. (…). Non lasciatevi mai comprare dal denaro, non permettete a nessuno di calpestare la vostra dignità, regalate la vostra anima solo a Dio, non abbandonate mai i vostri sogni, perseguiteli sempre». Queste le parole che Carmela Iuculano rivolge ai propri figli per spiegare le scelte della sua vita. Un’esistenza incredibile, disperata e coraggiosa, raccontata dalla scrittrice Carla Cerati nel libro «Storia vera di Carmela Iuculano», la giovane donna che si è ribellata a un clan mafioso. Il volume racconta le scelte della moglie del boss della mafia siciliana e il coraggio di una giovane donna che da bambina sognava di cambiare il mondo. Carmela oggi ha 36 anni e da colei che gestiva i proventi delle estorsioni quando era moglie del boss, oggi da pentita di mafia, ritenuta un’infame da Cosa Nostra, arrotonda facendo le pulizie e occupandosi degli anziani.

    LA VICENDA - Poco più che adolescente Carmela ha finito per restare impigliata nella rete della mafia. Oggi invece, collaborando con la giustizia, rischia consapevolmente la vita per dare un contributo alla lotta contro la criminalità. Attraverso la sua testimonianza si riesce a capire la differenza tra i valori distorti a cui fa riferimento la mafia e quelli veri del vivere civile. «Storia vera di Carmela Iuculano», pubblicato da Marsilio (nella collana Gli Specchi, 15 euro), è un libro al contempo di cronaca nera e la tormentata testimonianza dell’amore di una madre. Condannata a 18 mesi per partecipazione ad associazione mafiosa, ridotti con il patteggiamento, con il suo contributo determinante, Carmela Iuculano ha spedito in galera un intero clan mafioso marito compreso.

    COLLABORATRICE DI GIUSTIZIA - Carmela comincia a parlare con i giudici Prestipino, Sava e Lari spinta dalle due figlie Daniela e Serena quando queste avevano appena 10 e 13 anni ed erano rimaste sconvolte dall' arresto di entrambi i genitori per mafia. Il 3 maggio 2004 Carmela finisce in manette. Il 10 maggio torna a casa ai domiciliare grazie al fatto che ha un bambino, Andrea, di 17 mesi. Ma qui le figlie la sorprendono: «Mamma, ti sembra giusto che in paese tutti ci salutino perché siamo figli di... per paura?» E allora Carmela distrutta, annichilita: «Dovrò accusare vostro papà di cose molto brutte, persino di avere ucciso: saremo costretti a partire da soli, a non rivedere più né i nonni, né gli amici, né la nostra bella casa». La risposta sussurrata di Daniela: «Mamma, noi però saremo tutti assieme!». Ora vive con un nuovo nome in un luogo protetto a migliaia di chilometri di distanza dalla sua disperata vita siciliana. Inventandosi ogni giorno un passato di fantasia.

    LA «FUITINA» - Il «principe azzurro» aspettava Carmela... invece si è trovata accanto, dopo la classica «fuitina» compiuta ad appena 16 anni, Pino Rizzo: il boss di Cerda (Palermo) legato a Bernardo Provenzano. I Rizzo sono complici di Nino Giuffrè (oggi pentito), braccio destro di Provenzano, condannato a 20 anni di carcere per la strage di Capaci. Quindi per Carmela matrimonio riparatore con Pino a 18 anni. Risultato: tre figli, anoressia, alcolismo e depressione. Tra botte e tradimenti la vita ha regalato a Carmela innumerevoli e terribili esperienze. Alla fine la svolta: accusa suo marito di essere un estorsore, un assassino. Per questo il boss viene condannato all´ergastolo anche in appello. E ha svelato come funzionavano i colloqui in carcere dei boss mafiosi che servono soprattutto per «dettare» ordini all’esterno. Come? Attraverso la trasmissione di bigliettini, portati e consegnati dai cosiddetti «postini», tra cui la stessa Carmela con i bambini strumentalizzati per coprire le voci «intercettate» degli incontri.

    CONCLUSIONE - Raccontando la storia della sua vita, Carmela è come se chiedesse alle donne dei boss di cambiare vita. Di seguire il suo esempio. O quello di Serafina Battaglia, prima donna di mafia a spezzare il muro dell’omertà per vendicare l’assassinio del figlio Salvatore. Oppure quello di Rita Atria, la ragazza di Partanna che a soli 17 anni diviene testimone di giustizia ma che si suicida per la morte del giudice Paolo Borsellino. O anche l'esempio di Giusy Vitale, detta anche «Lady mafia». Prima donna a cui la Procura di Palermo contesta di essere un «boss in gonnella» e poi primo pentito donna. Carmela ora dice a se stessa e alle altre donne dei boss: «Ho scelto la giustizia come famiglia... ho intrapreso questa strada al buio... quando ho deciso di fare questo passo ero in casa mia, tra i miei affetti e le mie cose, eppure quando mia figlia mi ha chiesto di abbandonare tutto non ho esitato».

    Nino Luca

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    "Le perfezioni provvisorie"
    Di Gianrico Carofiglio


    (di Paolo Petroni).



    Torna l'avvocato Guido Guerrieri con il suo amore per la musica e il cinema, con i suoi sfoghi da pugile dilettante e i colloqui col ''troppo silenzioso' sacco, in una storia di investigazione su una ragazza sparita nel nulla, che scopre via via i veli sulla realta' della provincia italiana. Qui siamo nella Bari cara all'autore, Gianrico Carofiglio, ma non sarebbe diverso in molte altre citta' del nostro paese. Un romanzo quindi ben ritmato, con una sua impostazione anche visiva, ma soprattutto attento a costruire tutti i personaggi, a svelarli psicologicamente in modo da dar loro spessore e coinvolgere il lettore, al di la' della suspence e il voler sapere come va a finire, scoprire che fine a fatto Manuela Ferraro, le cui ultime notizie la danno, dopo un week end con amici in un trullo, alla stazione di Ostuni in partenza per Bari, dove il padre, attonito, distrutto dal dolore, va alla stazione ad aspettarla tutti i giorni.

    E non meno attenzione e' posta nella descrizione dei luoghi.

    Del resto, in una investigazione di questo tipo, che parte dal nulla, ogni particolare puo' rivelarsi improvvisamente prezioso, come ci spiega Guerrieri-Carofiglio, che con le sue storie ci introduce senza prosopopea o didascalismi nel mondo delle inchieste giudiziarie, dei tribunali, delle corti giudicanti del nostro paese. Un giallo vive spesso di digressioni, e purtroppo tante volte queste appaiono come tali, inserti quasi a posteriori nella storia principale. Con Carofiglio questo non accade, perche' le sue storie (processi, udienze, clienti che raccontano la propria situazione) sono strettamente collegate alla vita e il lavoro del protagonista, una richiama l'altra e contribuisce anche a farci partecipare alla sua esistenza, alle sue solitudini, rabbie, desideri, insofferenze, debolezze. In questo senso esemplare la leggerezza con cui Guerrieri confida al lettore le sue reazioni davanti alla giovinezza abbondante e l'istintiva malizia di una ragazza, Manuela, la migliore amica della scomparsa, che cerca di sedurlo con apparente, sfrontata naturalezza. Un Guerrieri colto in un momento di passaggio, che comincia fare i conti con la propria vita, solo, dopo il matrimonio con Sara e la storia finita con Margherita.

    Un romanzo particolarmente riuscito, scritto con la consueta eleganza di lingua e con stile quasi affabulatorio, godibile, che' non si esaurisce nell'invenzione noir, della quale, del resto, registra il dolore e lo sconcerto che procura attorno a se', nella famiglia della ragazza. Anche per questo dispiace se ne sia parlato molto solo per alcuni fatti marginali, come il giro barese di squillo d'alto bordo (escort?) che ormai pare fare notizia su tutto. Un giro attraverso il quale Carofiglio dimostra tra l'altro la sua attenzione verso l'altro e il diverso, dal mondo gay alla giovane avvocato di studio di Guerrieri, la peruviana Consuelo.

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    L'intervento del Sottosegretario di Stato a Lavoro, Salute e Politiche sociali
    Polemica Dylan Dog, Roccella:
    «Ho letto l'albo. Paure infondate»
    «Il racconto era stato descritto come presa di posizione
    sull'eutanasia. Invece parla della fragilità del corpo»


    Non ho mai creduto alle letture ideologiche, ai tentativi di decifrazione di un testo in chiave tutta politica: non è attraverso il filtro delle battaglie più o meno civili che la letteratura si fa riconoscere come tale, e può toccarci in profondità. Leggendo l’ultimo numero di Dylan Dog, "Mater morbi", la mia diffidenza verso le interpretazioni politiche si è accentuata. Il racconto è stato esaltato da alcuni quotidiani come presa di posizione su eutanasia e testamento biologico, e certo c'è anche questo. Ma è un discorso assai poco politico, confinato in uno spazio laterale («Nel frattempo, un certo dottor Harker ha alzato un gran polverone con i media, e oggi per tutto il paese si discute di accanimento terapeutico, testamento biologico e suicidio assistito…»). Quando sono stata interpellata da una giornalista sul fumetto, non lo avevo ancora letto; in effetti mi si chiedeva di intervenire nel dibattito sollevato dagli articoli comparsi sulla stampa, e mi aveva colpito in particolare una frase citata: «C'è stato un tempo in cui ero un uomo…». Come a dire: solo la salute garantisce la nostra qualità umana, e forse la nostra dignità di persona. Ma a una lettura diretta del testo, la mia paura si è rivelata del tutto infondata.


    Il cuore del racconto è nel corpo a corpo con la malattia, nel dilemma, non etico ma vissuto nella carne, tra accettazione e rifiuto, fino a riconoscere l'assurdità di una ribellione alla condizione umana. Perché la malattia, il dolore, la precarietà della vita e la fragilità del corpo fanno parte della condizione umana, e combatterle vuol dire, alla fine, sfinirsi in un conflitto contro se stessi. Non si tratta di fatalismo rassegnato, ma della consapevolezza che l'esistenza degli uomini è fondata sul limite. La bellissima Mater morbi è «sola contro il mondo intero»: nessuno può amarla, e persino la morte è invocata per fuggirla. Ma Dylan, alla fine, l'accetta, e la malattia si placa, gli offre una tregua, se non una guarigione duratura.

    Nella storia c’è un bambino, segnato da una patologia unica, che guida il grande Dylan in questo percorso di saggezza. Una figura tenera e anomala rispetto al modo consueto di tratteggiare l’innocenza ingiustamente colpita dal male. Il piccolo Vincent, che morirà, «ha avuto la forza di accettare la malattia e vivere con essa, senza sprecare la sua esistenza in una guerra contro il suo stesso corpo… Mater morbi è un’amante spietata ed esigente, che ci accompagnerà per tutta la vita». Se c’è, nel testo di Recchioni (il soggettista), una critica dura e aspra, non riguarda tanto il testamento biologico, ma il traumatico ingresso nel mondo a parte dei malati e dell’organizzazione ospedaliera. La notte in corsia è un incubo spersonalizzante in cui Dylan non è sicuro nemmeno della sua identità. In ospedale, fuori dal suo ambiente, lontano da chi gli vuole bene, rischia di diventare un corpo oggettivato, separato perfino da se stesso. Più la malattia si aggrava più l'anonimato e l’isolamento incrinano il suo status di persona, finché «medici e infermieri non ti guardano più in faccia ma si limitano a controllare i tuoi parametri vitali su un monitor». Questo sì che si può combattere, ma per farlo la relazione umana tra medico e paziente va intensificata, e non trasformata in un rapporto tra offerta terapeutica e consumatore, non appiattita sulla deresponsabilizzazione degli operatori sanitari, che si limiterebbero ad applicare burocraticamente ciò che è scritto nel modulo del testamento biologico. Parliamone oltre le posizioni politiche, partendo dall’esperienza umana, consapevoli dei suoi limiti e dell’impossibilità di penetrare ogni mistero. Come scrive Recchioni-Dylan Dog, «In fondo… chi sono io per mettere in dubbio i miracoli?»

    Eugenia Roccella
    Sottosegretario di Stato al Lavoro, alla Salute e alle Politiche sociali
     
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    "Un viaggio"
    di Hans Gunter Adler



    di Paolo Petroni

    Se non altro, la Giornata della Memoria riesce di anno in anno ancora a farci scoprire qualcosa di nuovo, un documento significativo, un libro importante, e a segnare le celebrazioni 2010 sara' probabilmente questo pur non facile romanzo-memoria di Hans Gunther Adler, di cui ricorre il centenario della nascita (Praga 1910 - LOndra 1988), solo ora edito in Italia.

    Il fatto e' che la prima edizione di qualche rilievo è quella americana di due anni fa, a oltre quaranta da quella semiclandestina originale tedesca del 1962, anche se il manoscritto, rimasto a lungo inedito, risale agli anni Cinquanta, visto che in quell'epoca, in Germania, non si osavano pubblicare libri sulla Shoah.

    Eppure il romanzo di Adler non parla di ebrei, non nomina i nazisti, non cita nomi reali e non fa alcun riferimento storico nel raccontare, venata di tragica ironia, la vicenda di un certo Paul Lustig e della sua famiglia (il cui cognome vuol dire allegria), che procede in una sorta di incubo crescente in cui tutti precipitano senza rendersene conto, via via che ai protagonisti viene vietata ogni cosa possibile (''E dal momento che c'erano ancora soldi, li hanno vietati. Hanno vietato quello che c'era e quello che poteva diventare'') e vengono trasferiti di campo in campo. Il male pian piano li inghiotte, ma loro non sanno, non possono sapere dove stanno andando o dove sono finiti, non riuscendo a immaginare che a governare le cose ci sia ormai solo la follia piu' bieca, e ai loro occhi (che sono anche quelli attraverso cui vede il lettore) il mondo attorno appare come indefinito, il futuro incognito, il presente portatore di un crescente smarrimento.

    H. G. Adler, che non ha piu' usato il suo nome per esteso perche' si chiamava Han Gunther come il braccio destro di Eichmann, nel 1942 fu chiuso per due anni, con la moglie al madre, nel campo di lavoro di Theresienstadt, dal quale intrapresero il viaggio per Auschwitz, dove le due donne furono mandate subito alle camere a gas, mentre lui, dopo due settimane, fu inviato prima in uno, poi in un altro campo satellite di Buchenwald, da dove fu liberato sei mesi dopo. Tornato a Praga lavoro' all'accoglienza degli altri ebrei superstiti e poi al museo ebraico, cominciando a cercare e catalogare documenti sull'Olocausto, cosa che contnuo' a fare quando si trasferi' a Londra. In seguito, oltre a poesie e il romanzo 'Il viaggio', che lui ha definito ''una ballata'', scrisse numerosi, importanti saggi autobiografici e non sul tema, che ne hanno fatto uno studioso riconosciuto a livello internazionale.

    Qualche anno dopo, Adler tento' di attribuire a quegli anni grigi una lingua che potesse corrispondere alla quotidianita' del terrore, un'atmosfera irreale per cio' che pareva superare tutti i confini della realta' e della ragione, scrivendo ''in una prosa particolarmente bella, nitida, che va oltre il rancore e l'amarezza, espressione di una chiarificazione interiore alla quale ha diritto solo lei e chi ha condiviso il suo destino'', come gli scrisse Elias Canetti nel 1966, definendo il libro ''un capolavoro'', pur cogliendone alcuni limiti, nel bel presupposto che finisce per essere costrittivo e non facilitare la chiarezza dello svolgersi degli eventi, nella loro atmosfera onirica e straniante, eppure tragicamente pregante per la sua dolorosa e nitida poesia, che non puo' non farci pensare al mondo coevo di Beckett e alle indefinite catastrofi che coinvolgono i suoi personaggi-superstiti.

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