UN LIBRO AL GIORNO LEVA IL MEDICO DI TORNO

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    (di Mauretta Capuano)

    ROMA - Nessun cambio di passo dal noir al picaresco. Pierre Lemaitre, tra i grandi nomi del poliziesco in Francia, vincitore del Premio Goncourt 2013 con "Ci rivediamo lassù" (Mondadori), storia di due reduci della prima guerra mondiale, ha lo sguardo concentrato sull'ingiustizia sociale anche quando si misura con questioni storiche e ha intenzione di continuare a farlo. "'Ci rivediamo lassù' l'ho scritto con lo stesso spirito, la stessa lingua e know how degli altri miei libri. Ci vedo sostanzialmente una continuità anche se non è un noir" dice all'ANSA lo scrittore, a Roma per la quinta edizione del Festival de la Fiction Francaise.

    Nel raccontare la storia dell'insicuro impiegato Albert, che alla fine della prima guerra mondiale rimane senza nulla, e dell'eccentrico Edouard, un ragazzo ricco con doti artistiche che anche lui si ritrova, dopo il conflitto, a fare una vita grama, Lemaitre ha lavorato "più sull'illusione romanzesca che sulla verità dettagliata. Mi sono documentato - spiega - ma non con quell'attenzione al particolare dello storico. Sono uno scrittore, non un sociologo e neppure un filosofo. Se avessi una soluzione mi candiderei alle elezioni presidenziali". Storia di un'amicizia speciale e fotografia della società francese all'uscita della prima guerra mondiale 'Ci rivediamo lassù' non lascia spazio all'eroismo e mostra le illusioni e le sconfitte di ieri e di oggi. "Si può fare una cosa da romanziere noir rappresentando la storia senza fare concessioni al proprio paese, con tutte le sue sconfitte, vigliaccherie e la mancanza di eroismo. Sul mio palcoscenico si muovono persone normali, comuni che per carità potrebbero sì, anche diventare eroi. Credo ai riflessi pronti, al sangue freddo e alla fortuna" afferma lo scrittore. Ma nel centenario della prima guerra mondiale, che cosa è successo a questa Europa? E' più umana, più sociale? "Siamo di fronte ad un'altra sconfitta - dice Lemaitre - dell'Europa unita in cui avevano riposto speranze. Il Consiglio d'Europa ha deciso di non fare celebrazioni unitarie per i cento anni dal primo conflitto mondiale e questo è un ulteriore scacco. Si è voluta l'unione europea sul terreno dell'economia, mentre bisognava lavorare prima sull'unione culturale. E lo dico come cittadino più che come scrittore". L'ingiustizia sociale, ammette Lemaitre che ha insegnato per molti anni letteratura, ha esordito superati i cinquant'anni come scrittore ed è anche sceneggiatore, "è centrale in tutto quello che ho scritto finora e benché non serva a cambiare granché, continuo a fare quello che ritengo utile. Uno scrittore deve provocare domande, non dare risposte". Lui si sente erede della scuola letteraria di Victor Hugo e Dumas, ma quello che "più mi interessa - afferma - non è la lotta di classe, l'opposizione tra i ricchi e i poveri, ma cercare di scavare in quei sistemi sociali in avaria, incapaci di far posto a chi lo merita". Come accade nel noir "Lavoro a mano armata" (Fazi) che racconta la disperazione di un manager cinquantenne che si ritrova disoccupato senior. In "Ci rivediamo lassù' attraverso Edouard, Albert e il tenente Pradelle, mostra anche come "le grandi catastrofi di ogni tipo, dalle guerre alle inondazioni provochino degli incontri inattesi e commistioni sociali. Albert ed Edouard non si sarebbero mai incontrati nella vita ordinaria" dice. Si ritrova nel libro anche la scrittura visiva di Lemaitre. "Si potrebbe dire che io sia un fabbricatore di romanzi cinematografici. Anche questo libro sarebbe un bel film, ma difficile e costoso da realizzare. E' vero, riesco a scrivere una scena quando la vedo. Io non scrivo per il cinema, ma grazie al cinema. E la scrittura mi dà gioia. L'insegnante, il romanziere e l'uomo sono la stessa persona nel mio caso". Dopo la prima guerra mondiale, raccontata vedendola dal dopoguerra, Lemaitre vuole continuare il suo lavoro sulla storia attraverso le pieghe meno conosciute con il racconto della "seconda guerra mondiale dal momento in cui si verifica il grande esodo in Francia da nord a sud".
    FONTE ANSA
     
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    'Piangi pure'
    di Lidia Ravera




    di Paolo Petroni

    Piangi, piangi pure, per il sollievo di essere e perché sei ancora vivo: a questo allude il titolo dell'ultimo romanzo di Lidia Ravera, che proprio del sentirsi vivi fa il suo tema, legandolo ai problemi, ai sentimenti, alle necessità, alle illusioni e ai rimpianti, alla voglia di arrendersi o non arrendersi di chi è ormai anziano. Iris De Santis ha 79 anni e l'altro protagonista, Carlo Lamberti, lo psicanalista che ha lo studio al piano terra del suo palazzo, tre di meno, ma scopriremo che è più malconcio e già segnato da una malattia inesorabile.

    Carlo ha una moglie, Annalisa, più giovane e sin troppo accondiscendente, tanto che accetterà la storia ''di cuore'' che nasce con Iris, mentre lui vivrà un po' di sano egoismo ''che altri spalmano per tutta la vita e io in questo ultimi giorni'', con la coscienza a posto nel lasciarla benestante e, a 45 anni, con una vita ancora davanti.

    Iris ha una figlia, Alice, sessantenne in crisi religiosa che troverà un po' di pace dedicandosi ai bambini di una casa-famiglia, e una nipote, Melina, che vorrebbe una vita facile e salta da un uomo all'altro. La figlia si è venduta la libreria a Stromboli che le aveva lasciato Iris, mentre lei si è venduta la nuda proprietà (e 'Nuda proprietà' è il titolo del lavoro teatrale con Lella Costa e Paolo Calabresi ora in tournee) dell'attico ai Parioli in cui vive, comprato a suo tempo con i soldi del successo scandaloso del suo unico romanzo, 'Storia di una amore'. L'amore, di quelle pagine sostanzialmente autobiografiche, era l'amore passione durato sette mesi per Michele, per il quale abbandonò marito (Antonio, funzionario del Pci rigido, vecchio stampo) e figlia, ma dai quali fu riaccolta, quando decise di tornare a casa, abbandonata e disperata sino a pensare al suicidio e per niente convinta di far la cosa giusta.

    Iris vive sola e va a prendere un caffè e, a sera, un Pernod nel bar sotto casa ove, ormai per tacito appuntamento, incontra Carlo, cui confida i propri problemi, depressioni, rovelli, tanto che questo le consiglia di scrivere un diario, di confessarsi sulla pagina come a uno specchio. E 'Piangi pure' è appunto questo diario, diviso in tre parti: la conoscenza e il crescere del loro rapporto; il loro incontro 'di cuore'; la gita in auto con Carlo ormai molto malato al suo paese natale. Un racconto per certi versi impietoso, che non si tira indietro davanti a nulla, compreso il degrado fisico, ma salvato e protetto dalla tenerezza, dalla forza dei sentimenti veri, limpidi o contorti che siano, dalla delicatezza del narrare (e del narrarsi della protagonista – ''se te ne freghi della scrittura, scrivere diventa un esercizio davvero noioso''), dalla riscoperta della gioia del poter essere, pur nella nostalgia di ciò che è stato. Ecco così la difficoltà di accettare quel che uno sente nascere in sé quando crede non sia più il caso, la vitalità che questo comporta, quasi a ridare un senso minimo di futuro, mentre si pensa di non averne praticamente più e ci si lascia invecchiare persino anzitempo.

    Anche perché, a contrasto, c'è la vita dissipata dei giovani, di Melina, che lascia un vecchio protettore per il figlio, e di Debbie e Guido, i due acquirenti della nuda proprietà, impietosi e crudi nel loro parlare degli anziani. Come un po' in tutta la narrativa di Lidia Ravera, il tema vero è quello del tempo, del suo passare, inesorabile, del fare i conti con le varie età della vita, scrivendone nei romanzi (col senso che il diario ha per Iris), accettare la vita per quello che è e, finché c'è, cercare di viverla sino in fondo.

    Guardarla negli occhi, con quell'attenzione che la scrittrice dà agli sguardi, al guardare e al leggersi negli occhi dei suoi personaggi. Tutto raccontato con leggerezza, una lingua musicale e insinuante, con la poesia di uno sguardo di affettuosa partecipazione, ma anche con un filo sorridente ironia.
    fonte ansa
     
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    'Il mondo non mi deve nulla'
    di Massimo Carlotto
    di Paolo Petroni

    ''Non tutti i ladri vengono per nuocere'' affermava sin dal titolo una farsa di Dario Fo in cui il protagonista, entrato in una casa per svaligiarla, riceve telefonate dalla moglie e si trova invischiato in una complicata storia di corna dei proprietari rientrati inopinatamente. Anche l'Adelmo di questo nuovo e ironico racconto, icastico e giocoso noir, ma senza sangue, di Massimo Carlotto fa il ladro, ha una moglie ansiosa che lo chiama di continuo al cellulare e si trova, davanti alla proprietaria dell'appartamento in cui si è insinuato, in una situazione del tutto inattesa. Siamo a Rimini, fuori stagione. Lui ruba da quando a 45 anni è stato licenziato dalla fabbrica e non sa come pagare mutuo e bollette; lei, una sessantenne tedesca di nome Lise che ha fatto il croupier nelle sale gioco delle navi da crociera e si è abituata a giudicare le persone, con un'occhiata, dal comportamento al tavolo verde e a guardarle dall'alto in basso, è rimasta senza soldi, perchè era stata convinta dalla banca a puntare tutto sui famosi derivati truffa. Le sono rimasti solo 120 mila euro, che a lei bastano per vivere un anno e che metterà in gioco con Adelmo. Lui entra da una finestra aperta nella sua casa buia, ma quando, guidato dalla luce di una piccola torcia, arriva in salotto, all'improvviso tutte le luci si accendono e Lise è lì in poltrona, come lo attendesse. Inizia quindi una sfida che naturalmente sarà lei a condurre, anche se lui troverà il modo per non soccombere su tutta la linea, e che è la forza letteraria coinvolgente e asciutta di questo testo di Carlotto, quasi tutto dialogico, che esce ora in occasione della manifestazione romana ''Libri come'', dove l'autore lo reciterà, assieme a Anna Bonaiuto, venerdì 14 marzo, con musiche dal vivo di Maurizio Camardi. ''La menzogna è l'unico, vero strumento di sopravvivenza a disposizione dell'essere umano'' afferma la donna, e lui le replica: ''Dici che racconti un sacco di bugie, ma a me pare che provi un gusto particolare a sbattere in faccia la verità'', ferito dalle spiazzanti e sprezzanti notazioni di Lise, che dice di limitarsi a capire come lui e la sua Carlina si stiano giocando male, miseramente, la vita giorno per giorno. Lei è donna raffinata, abituata a saper ben vivere, lui è un ''uomo da cioccalatini'', e consigliati dal pasticcere, e non certo all'altezza di fiori, profumi o vestiti adatti a una come lei. Lise è decisamente uno dei personaggi, di quelli migliori, di Carlotto, con le sue uscite, le sue affermazioni, la sapienza di chi fa i conti con la vita e dichiara ''il mondo non mi deve nulla'', capace di chiedere, implorare, sedurre (in un attimo di debolezza e fragile illusione legata al suo passato), di pagare e ricattare il povero Adelmo, sperso, conquistato dal fascino e l'intelligenza che si è trovato di fronte, capace di costringerlo a fare qualche conto con la propria vita e il proprio modo di essere. In tutto questo, nel gioco serrato tra i due, nei colpi di scena, nell'abile variare di toni e situazioni, grazie a una bella scrittura vivace, senza fronzoli, precisa e diretta, ecco che ci si trova davanti a dichiarzioni come: ''Ma perché è così difficile trovare un maschio che capisca che far riodere le donne è fondamentale'', oppure, ''Il gioco è fatica e magia. Esattamente l'essenza di cui son fatte le donne. Per questo siamo meglio dei maschi e rendiamo decente questo mondo''.

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    di Paolo Petroni

    C'è un cadavere da riesumare custodito da vari serpenti, ci sono esami sul Dna, ci sono indagini che spaziano dal Medio oriente a Padova, tra colonnelli corrotti e testimonianze ambigue, senza contare un Terribile anatomopatologo: insomma, ci sono tutti gli ingredienti di un bel romanzo noir. Eppure proprio così non è. Gli ingredienti sono quelli e la capacità narrativa e di costruzione del racconto di Guido Barbujani è ottima e indiscutibile, del resto è autore anche di tre o quattro veri romanzi sempre con un lato noir e sfondi storici dal fascismo al dopoguerra e l'Argentina dei desaparecidos.

    Questa volta però l'insigne genetista di fama internazionale e docente all'Università di Ferrara, ci propone il resoconto vero e proprio di una ricerca storico-genetica anche abbastanza particolare: cercar di capire se le reliquie, conservate a Padova in un antico sarcofago di piombo da oltre 800 anni, possano, almeno ipoteticamente, essere o meno quelle di San Luca evangelista, morto a Tebe in età avanzata intorno al 150 d.C. come vuole la tradizione.

    Per cercar di capire da dove quei resti provengano, si tratta di confrontarne il Dna (trovato macinando un dente e una radice di dente dello scheletro) con quello di turchi, greci e siriani. per i primi due ceppi non c'è problema, per il terzo il discorso è diverso. Il racconto inizia così tra Aleppo e Palmira, riferendo, con una buona dose di ironia, un viaggio un po' di studio e un po' turistico in Siria nel 1999 accompagnato dall'amico Luca, per procurarsi clandestinamente un centinaio di campioni di Dna locali, cosa possibile grazie alla collaborazione interessata di un colonnello dell'esercito, proprietario di un laboratorio di analisi appunto ad Aleppo, e di un otorinolaringoiatra caldeo che aveva fatto i suoi studi di medicina a Padova. La situazione è avventurosa e paradossale e Barbujani ce la racconta senza farci perdere nulla di quanto vi vede e ha di comico, sentendosi ''praticamente in missione per conto di Dio, dunque, come John Belushi nei Blues Brothers''.

    A voler cercar di sapere il possibile e il probabile, anche se per primo convinto che nulla di certo ne sarebbe uscito, è il vescovo di Padova Francesco Mattiazzo, che affida al professor Vito Terribile la costituzione di equipe in cui entrano Barnbujani, un'antropologa, un archeologo, un numismatico, un fisico e così via, compreso un palinologo per identificare i pollini presenti nella cassa e sui resti e la loro provenienza. Con grande rispetto, ma con l'occhio del laico e la razionalità dello scienziato, Barbujani mette sempre un velo di sorridente ironia nel modo in cui ci introduce a questa indagine, raccontandoci per esempio la storia delle reliquie e dei corpi degli evangelisti e non solo: ''La moltiplicazione dei santi tramite dispersione delle reliquie inizia nell'Alto Medioevo e non sembra incidesse sulla capacità dei santi stessi di operare miracoli'', tanto che ne nascerà un lucroso commercio. Non dimentica mai, infatti, il contesto storico e culturale, così che racconta spesso divagando, anche sul proprio periodo di studi in America e le rivalità tra grandi accademici, o approfondendo, citando fonti e bibliografia, spiegandoci cosa sia la genetica e come si fa un'analisi del Dna e così via, con spirito sempre narrativo e leggerezza e passione per un gioco intellettuale coinvolgente in cui cultura scientifica e umanistica si confrontano continuamente.
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    Questionario dello scrittore di Alan Poloni
    Risponde lo scrittore del romanzo "Dio se la caverà"
    Classe 1973, bergamasco, insegnate di lettere, scrittore anche per il teatro, nonché autore del romanzo "Dio se la caverà" pubblicato da Neo.Edizioni.

    È Alan Poloni, che "quando non è tra le “lettere”, lavora la terra, produce miele e si prende cura del suo vigneto". Per conoscerlo meglio, leggiamo le risposte che ha dato al nostro Questionario dello scrittore:

    Tre aggettivi per definire Alan Poloni scrittore:

    Sanguigno. Irregolare. Lieve.

    Tre aggettivi per definire Alan Poloni uomo:

    Saturnino. Complesso. Riservato

    Cosa c’è di te in Nicola Pesenti, uno dei protagonisti del tuo romanzo?

    L'amore per il silenzio e la ricerca del bene anche attraverso il male.

    Il colore della tua scrittura?

    Il blu dei luoghi, l'argento (vivo) dei personaggi.

    Il sapore delle tue parole?

    Hanno il sapore di tutte le vite che non si possono vivere e che per qualche pagina rimangono impigliate, come fantasmi altrimenti invisibili, al lenzuolo della scrittura.

    La colonna sonora del tuo ultimo libro?

    Caro vecchio insano rock, dai Deep Purple ai Pearl Jam, che sa di sudore, tabacco e bicchieri vuoti con ancora dentro un goccio di benzina.

    Il prossimo libro che scriverai?

    Potrebbe intitolarsi "L'uomo che rovinava i sabati", ma non so ancora di cosa parlerà.

    Il libro della tua vita?

    "Viaggio al termine della notte", di Céline. La conoscenza definitiva e irrimediabile della matericità dell'uomo.

    Il libro che avresti voluto scrivere?

    "Infinite Jest", di Wallace. Lo tengo lontano da me perché ad aprirlo vien voglia di buttare il computer dalla finestra.

    Il libro che non avresti mai voluto leggere?

    Parecchi, e infatti non li ho finiti. L'ultimo che non ho finito è "L'arcobaleno della gravità", di Pynchon. A 600 pagine dalla fine mi sono arreso e ho aperto un fumetto.

     
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    Soldati e spie in Roccaforte Afghanistan
    Il nuovo military thriller di Filippo Pavan Bernacchi


    (ANSA) - ROMA, 4 APR - FILIPPO PAVAN BERNACCHI, ROCCAFORTE AFGHANISTAN (MURSIA, PP 348, EURO 18) Afghanistan 2009. Un omicidio all'interno di una base militare italiana scuote i vertici dei servizi segreti e porta a delle tavolette d'argilla, incise in scrittura cuneiforme circa 4.600 anni prima e nascoste agli occhi del mondo. Manufatti che, se portati alla luce, potrebbero riscrivere la storia di tutte le religioni e accendere focolai di rivolta a ogni latitudine. Il messaggio in esse contenuto, infatti, se autentico, proverebbe che le religioni sono state costruite a tavolino da un gruppo di sacerdoti durante un concilio che si perde nella notte dei tempi. Obiettivo: soggiogare le masse e piegarle ai desideri di monarchi e religiosi. In "Roccaforte Afghanistan" il mistero delle tavolette d'argilla si combina con l'azione di narcotrafficanti e mercenari che agiscono in una polveriera dove protagonisti assoluti sono l'Esercito italiano e i suoi uomini. Un "military thriller" con cui l'ex capitano degli alpini Filippo Pavan Bernacchi, già autore del 'profetico' "Non Uccidete Bin Laden" (Mursia 2008 e Mondadori 2010), "si conferma un solidissimo narratore di intrighi bellici", come scrive nella prefazione Alain D.Altieri, il maestro italiano dell'action-thriller.
    La missione militare italiana in Afghanistan è riportata fedelmente grazie alla conoscenza diretta dell'autore di procedure, armi, tattiche, terminologie e mezzi. E grazie alla consulenza di diversi militari di svariati reparti e gradi, reduci da quel teatro di guerra. Gli stessi personaggi del libro sono presi di peso dalla realtà e la vicenda afghana - così come si è sviluppata dall'11 settembre 2001 ad oggi - viene raccontata nella sua attualità, con tutto il suo patos e le sue mille contraddizioni. "Roccaforte Afghanistan" racconta come operano l'esercito e i servizi segreti italiani, contro chi, con che logiche. Diversi episodi sono tratti da fatti reali, come l'attacco ai paracadutisti della Folgore - 6 morti -, la liberazione di ostaggi da parte delle nostre Forze speciali o l'uso massiccio di droni. Il libro evidenzia chi siano in realtà i talebani, come si muovano nelle zone tribali a cavallo col Pakistan e come siano braccati dagli aerei senza pilota occidentali in una sorta di wargame. Racconta, insomma, qualcosa di molto distante dalla "missione di pace" di cui sempre si parla, mettendo in luce i vari aspetti di un conflitto cruento, fatto di scontri a fuoco, agenti paracadutati in zone inaccessibili, inseguimenti, blitz, attentati, rapimenti, disinformazione e brutali omicidi. Gli ingredienti del thriller ci sono tutti e Pavan Bernacchi li combina con efficacia. Il libro è curato da Maurizio Pagliano, già editor italiano di Tom Clancy. (ANSA).
     
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    Capecelatro, Passeggiate d'autore

    Capecelatro, Passeggiate d'autore
    Alla scoperta della città eterna sulle orme dei grandi



    Sono le targhe che ricordano il soggiorno o la nascita di un personaggio il punto di partenza per raccontarci del suo rapporto con Roma e introdurci ai luoghi da lui più amati. ''Qui presso nacque l'ultimo dei tribuni, Cola di Rienzo'' è la prima delle targhe a Piazza delle Cinque Scole, da cui Giuliano Capecelatro ( ''PASSEGGIATE D'AUTORE - da Caravaggio ai Beatles, 56 personaggi in giro per Roma'' IACOBELLI, pp. 250 - 15,00 euro) inizia il suo tour, che finisce con Cesare Cipolletti, nato all'Isola Tiberina, ingegnere idraulico che, nella seconda metà dell'800 della messa in sicurezza e della navigabilità del fiume si occupò a lungo, perché la visita di Roma all'ombra di questi grandi segue percorsi toponomastici e non cronologici o alfabetici. Tutte le voci sono poi arricchite da alcune schede storico-artistiche di posti e monumenti.


    Insomma, ancora un libro di curiosità romane, ma questa volta sorretto da notazioni letterarie e culturali, da ricordi storici e le figure di personaggi di qualità a farci da guida, tra i quali non poteva mancare l'autore di altre celeberrime ''Passeggiate romane'', Stendhal , la cui targa su Palazzo Conti, dove dimorò tra il 1834 e il 1936, lo giudica, per quelle sue pagine, ''degno del nome di romano''. Dell'autore de ''Il rosso e il nero'' Capecelatro cita quel che scrisse visitando San Pietro o il Pantheon e un po' di vita quotidiana e delitti dell'epoca, di cui Stendhal fu cronista attento e appassionato.


    Grazie a un ricco e ben fatto indice dei nomi e dei luoghi, si può quindi cercare quel cui si è interessati, quel che incuriosisce, saltando da una pagina all'altra. E, dopo la Roma tra Via Monterone e Piazza dei Caprettari di Giuseppe Gioacchino Belli si può correre a quella di Carlo Emilio Gadda, inevitabilmente attorno a Via Merulana, con un salto quindi alla Via Frattina di James Joyce. Dopo la Porta Pia di Anna Magnani ecco Via di San Cosimato e dei Pettinari di Alberto Sordi, che ci può rimandare alla Via Baccina di Ettore Petrolini e il Teatro Jovinelli di Piazza Pepe e, magari, con un bel salto, alla Piazza Cavour della storica esibizione all'Adriano dei Beatles. E ancora Claudio Villa tra Trastevere e l'Ardeatina, Via Margutta di Federico Fellini, mentre, andando indietro con la storia, c'è Ciceruacchio con la sua Via Ripetta e persino Mastro Titta (il celebre boia papalino) col suo mantello scarlatto che indossava quando, chiusa la sua bottega di ombrellaio a Vicolo del Campanile, "passava ponte" per un'esecuzione che aveva posti canonici, tra cui Via dei Cerchi.

    ANSA
     
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    Ebrei di Libia: in libro loro storia, da coesistenza a fuga
    L'autore Roumani: 'Lavoro a quest'opera da tutta la vita'
    lapanchinadimariella
    ANSAmed) ROMA, 8 GIU - Tutto quello che avreste mai voluto sapere sugli ebrei di Libia lo potrete ora scoprire leggendo 'Gli ebrei di Libia' (Castelvecchi Editore) di Maurice Roumani, storico e docente universitario presso l'università del Negev (in Israele), tra i maggiori studiosi del Medio Oriente moderno.

    Roumani, che ha studiato in Gran Bretagna e Stati Uniti, è nato a Bengasi, da cui - come tutti gli altri ebrei - è dovuto scappare. Gli esperti che ieri hanno partecipato alla presentazione del libro a Roma, presso Palazzo Baleani, non hanno esitato a definire la sua opera "una pietra miliare", che si pone nel solco tracciato - anni fa - da Renzo De Felice con il suo 'Ebrei in un Paese arabo'. Sfogliando le pagine scritte da Roumani - ricchissime anche di foto e utili didascalie - salta immediatamente all'occhio come questo volume cerchi di affrontare tutti gli aspetti legati alla presenza e successiva partenza degli ebrei dalla Libia: dalla coesistenza con gli arabi, all'introduzione delle leggi razziali durante il periodo coloniale: leggi razziali che furono applicate solo fuori dalla Hara, il ghetto ebraico, dove la vita continuò invece a scorrere uguale a se stessa; dall'esodo di massa che tra il 1949 e il 1952 ridusse la comunità all'osso, a seguito di due pesanti pogrom nel 1945 e 1948, dettati dall'affermazione crescente del panarabismo e dalla nascita d'Israele (1948), fino alle ultime e ultimissime partenze nel 1967 e 1969. E, infine, le complessità dell'integrazione nel neonato Stato ebraico, dove gli ebrei libici e nordafricani in generale devono fare i conti con i pregiudizi dell'élite askenazita. "Si può dire che in un certo senso io lavori a questo libro dal 1960", ha raccontato l'autore, ricordando quando, giovane studente in un'università inglese, scrisse una tesina sugli ebrei libici. E da allora il suo lavoro di ricerca e raccolta di documenti non si è mai fermato. 'Gli ebrei di Libia' è il risultato di un'accurata e annosa opera di setaccio, compiuta scandagliando archivi, biblioteche, lettere, fotografie e fondi storici in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele. Fonti spesso inedite e l'approccio distaccato, da scienziato, dell'autore costituiscono il valore aggiunto dell'opera. (ANSAmed)
     
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322 replies since 26/11/2009, 08:25   2428 views
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