Hippie in La vita oscena, borghese in Uno per tutti, la Ferrari fronteggia figli impegnativi
Di mamma non ce n’è certo una sola, oggi, nella vita d’attrice di Isabella Ferrari. Nei suoi splendidi 50 anni vissuti filmicamente, può anzi permettersi di saltare dalla genitrice hippie anni Settanta del cupo, sperimentale e intrigante La vita oscena, tratto dal libro di Aldo Nove e diretto dal marito Renato De Maria (passato all’ultima Mostra di Venezia e a metà giugno finalmente nelle sale) al thriller familiare Uno per tutti di Mimmo Calopresti, che ha girato nei primi mesi dell’anno a Trieste accanto a Fabrizio Ferracane e Giorgio Panariello. In entrambi ha un figlio a dir poco problematico, in entrambi, anche se in modi molto diversi, è una figura protettiva e necessaria. Come lo è stata sempre per i suoi tre figli veri, Teresa, Nina e Giovanni. «La vita oscura era un film difficile da far nascere, viene da un racconto di un poeta che parla di morte. Dice verità urgenti, autobiografiche, e Renato (De Maria, ndr) si è divertito a costruirci intorno una cornice. Sembrava impossibile trovare i soldi, poi un ragazzo che non lo fa di mestiere ha deciso di investire il suo denaro in questa idea sperimentale. Io ho sostenuto subito l’idea: quanti ne vorrei interpretare, di film così, ho un grande desiderio di immagini di libertà. Invece i nostri produttori hanno tutti paura di sbagliare, di non incassare abbastanza, e subito gli sceneggiatori si accodano. Ma il cinema italiano, che ha vinto tanti premi grazie alla sua qualità, deve aver più coraggio e uscire dalla solita commedia con tanti attori, che poi sono sempre gli stessi. Bravi, per carità, però... Se il momento peggiore sta passando anche per noi, allora prendiamone atto, usciamo dalle macerie. C’è la speranza di vedere la vita e questo lavoro con più morbidezza, meno paura». Difficile bloccare Isabella quando inizia un discorso che le sta a cuore. Però, tornando a La vita oscena, al suo stile psichedelico, alla sua parte... «Nel mio ruolo c’è tanta poesia del materno, il dare alla luce il proprio figlio (Clément Métayer), anche nella malattia, nella morte. La mia è una madre colorata, molto anni Settanta. In quel modo di vestirsi c’era anche la libertà di un’epoca che purtroppo non ho vissuto. In lei c’è voglia di vita, davvero fino alla morte. Poi nel film c’è una sorta di attraversamento delle fiamme e una rinascita. Certo non è un film per fare soldi, che piaccia alla banche o alla Merkel...».
L’altra mamma, quella di Uno per tutti, è più borghese, vive nell’oggi e ha un matrimonio in crisi. Ma resta lì, perché c’è un figlio che ha combinato qualcosa di grave e ha bisogno di lei. «Questo film, per me è una sorta di Delitto e castigo», dice l’attrice, felice di girare per Calopresti. «Mimmo lavora con gli attori in maniera istintiva, classica. Però è disponibile: molte soluzioni si trovano insieme sul set e questo lavoro di squadra è molto stimolante per un attore. Il personaggio che interpreto si porta dietro dolori e delusioni, è una donna in cerca di pace, buddista, che pratica ogni tipo di terapia olistica. E lo fa per un desiderio di tranquillità, di pulizia. Il rapporto con il figlio è molto conflittuale, ma lei è una madre con la “M” maiuscola, contro tutto e contro tutti». Come lei? «Sì, sono una donna che nella vita ha sempre lavorato e insieme allevato i figli, li ho seguiti molto. E posso dire che la vita dei ragazzi è molto cambiata oggi: studiano con la paura che sia tutto inutile, perché tanto il lavoro non c’è e dovranno cercarlo altrove. E invece bisogna farli restare qui, investendo sulla ricerca, l’università, altrimenti finiremo per costruire il futuro di altri paesi, non del nostro. Cos’è questa moda che hanno tutti di andarsene all’estero?». Discorsi da mamma, che, per restare in tema, ha «molto amato il film di Nanni Moretti Mia madre, vero e coraggioso nel raccontare la sua intimità, nelle immagini, negli oggetti. È speciale come riesce ad andare in profondità dentro se stesso senza paura di mostrarsi. Sono un po’ cresciuta con lui e lo invidio, non ha paura di rischiare mostrandosi al pubblico».
Un bel ritorno al cinema, quello di Isabella in questi ultimi anni, passato per La grande bellezza di Sorrentino, che «mi ha scelto per la mia immagine, il mio modo di essere nella vita. Però io non sono un’attrice che sa e può fare tutti i ruoli: anzi, credo che mi vengano meglio quelli più distanti da me, dal mio modo di essere e dalla mia psicologia. La vedo più come Moretti fa dire alla regista nel suo film: l’attore si deve vedere, accanto al personaggio. E da interprete mi piace di più mettermi delle maschere. L’ho fatto tanto a teatro e di recente al cinema: portavo una maschera (da spietata imprenditrice farmaceutica, ndr) in Il venditore di medicine di Antonio Morabito, accanto a Valerio Mastandrea, un film impegnato che meritava miglior fortuna, di quelli che mi piace interpretare fidandomi del regista. Amo molto recitare, indossare le vite degli altri, ma sono un tipo di attrice che fatica a decidere se fare un film o no, e di solito scelgo in base al nome del regista che me lo propone: mi piace essere usata, diventare un materiale malleabile nelle mani di un autore che sa cosa vuole mostrare e dire». Ma non sempre va così: «C’è il mio desiderio di fuga permanente, che si manifesta anche rinunciando a una proposta che magari, razionalmente, giudico magnifica: perché mi fa fatica star dentro quel ruolo, quel progetto. Per questo quando ho finito un film non lo voglio vedere, finisco per fuggire anche da quello. Ma ammetto che fare questo mestiere mi ha salvato dalla mia razionalità: sarei stata una donna molto noiosa, forse antipatica». Nel suo futuro niente regia («tanti attori la sognano, a me non interessa affatto»), e forse nemmeno un libro, «che pure molti mi propongono di scrivere, magari un’autobiografia. Ma io sono pigra, e stanca, passo da un set all’altro da quando avevo 16 anni, dopo il successo di Sapore di mare, e ho un po’ voglia di staccare, prendendomi perfino il lusso di dire di no a un grosso progetto in teatro, come mi è successo di recente. Tornando al libro, ho il terrore della pagina bianca, di raccontare i miei pensieri, i sogni, ciò che mi passa per la testa, che è cosi disordinato. Sì, sarei anche tentata di farlo, però ripartendo da un qualche ordine. Forse in un altro momento. La verità è che non so mai qual è il ruolo che mi aspetto, soprattutto dopo aver lavorato per una vita. Non so in che momento sono e ho il desiderio di reinventarmi, ascoltarmi».
Incerta su presente e futuro, sicura sul passato. «Rimpiango di non aver avuto una vera adolescenza, di essermi persa le tante cose che fanno i ragazzi e le ragazze a quell’età. E mi è mancata, anche se ho imparato sul campo, da maestri come Giordana, Scola, Doillon e tanti altri, una vera scuola di recitazione. Una volta, a Roma, ho partecipato al laboratorio di una bravissima coach americana, Susan: il suo corso era fantastico, mi ci sono buttata a capofitto anche se ero già famosa, superesposta. Ma al mio turno di esporre un’emozione, mi è venuto un blocco: ho aperto la porta e mi sono ritrovata, felice, sulla Tiburtina».
Da Scola a Sorrentino 2015 La vita oscena di R. De Maria, con C. Métayer, I. Forte, R. De Francesco Uno per tutti di Mimmo Calopresti, con Fabrizio Ferracane, G. Panariello 2013 La grande bellezza di P. Sorrentino, con T. Servillo, S. Ferilli, C. Verdone 2008 Caos calmo di A. Grimaldi con N. Moretti, V. Golino Un giorno perfetto di Ferzan Özpetek, con V. Mastandrea, S. Sandrelli 1995 Romanzo di un giovane povero di E. Scola, con A. Sordi, A. Dussolier 1983 Sapore di maredi Carlo Vanzina, con Virna Lisi, C. De Sica, M. Suma, J. Calà